Il predetto articolo stabilisce che le amministrazioni pubbliche entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge (24.11.2010), nel rispetto dei principi di correttezza e buona fede, possono sottoporre a nuova valutazione i provvedimenti di concessione della trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale già adottati prima della data di entrata in vigore del citato decreto-legge n. 112 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 133 del 2008.
Ad opinione di chi scrive, va messo in evidenza come l’art 16 del collegato lavoro non può che essere interpretato come fonte di una possibile proposta di ritorno al full time onde evitarne una sua lettura incostituzionale per le ragioni di tutela dell’affidamento nella legge e di salvaguardia dei diritti quesiti.
Non a caso, recentemente, la Suprema Corte, per le ragioni innanzi sinteticamente esposte ha inteso rimettere gli atti alla Corte Costituzionale evidenziando, tra l’altro, come l’intervento del legislatore diretto a regolare situazioni pregresse è legittimo a condizione che vengano rispettati i canoni costituzionali di ragionevolezza e i principi generali di tutela del legittimo affidamento e di certezza delle situazioni giuridiche (sent. 24/2009, 74/2008 e 376/1995); la norma successiva non può tradire l’affidamento del privato sull’avvenuto consolidamento di situazioni sostanziali (sent. 24/2009 e 156/2007).
Detto ciò, va evidenziato come la norma in questione si ponga altresì in contrasto con la normativa comunitaria e, peraltro, già risultano esserci pronunce di merito in tal senso.
Nel provvedimento reso in data 4.5.2011 dal Tribunale di Trento G.L., in merito all’art. 16 del collegato lavoro si evidenzia “la difformità dell’art. 16 della legge 4-11-2010 n° 183, alla direttiva Europea, 15-12-1997, n° 97/81/CE, relativa all’accordo quadro sul part-time del 06-06-1997 dell’Unice, del Ceep e della Ces, recepita dall’Italia con il decreto legislativo n° 61 del 2000, nella parte in cui attribuisce alla pubblica amministrazione di poter trasformare, unilateralmente, i rapporti di lavoro da tempo pieno a tempo parziale alla sola condizione del “principio di correttezza e buona fede” senza il consenso del lavoratore, discrimina il lavoratore part-time rispetto al lavoratore a tempo pieno, che rimane soggetto al potere del datore di lavoro pubblico, di modificare unilateralmente la durata della prestazione lavorativa.
Ed ancora, “viene dato atto che esso rappresenta la volontà delle parti sociali di definire un quadro generale per l’eliminazione delle discriminazioni nei confronti dei lavoratori a tempo parziale e per contribuire allo sviluppo delle possibilità di lavoro a tempo parziale su basi che siano accettabili sia per i datori di lavoro sia per i lavoratori. Le parti firmatarie del predetto accordo attribuiscono importanza alle misure che facilitano l’accesso al tempo parziale per uomini e donne che si preparano alla pensione, che vogliono conciliare la vita lavorativa con quella familiare nell’interesse reciproco di datori e lavoratori e secondo modalità che favoriscono lo sviluppo delle imprese”
L’art 5 del D.lgs. 25.2.2000 n. 61, attuativo della direttiva europea, prevede che la trasformazione del rapporto di lavoro da tempo parziale a tempo pieno possa aver luogo solo con il consenso del lavoratore il cui rifiuto non costituisce giustificato motivo di licenziamento. Se questi sono i termini della direttiva, se è vero come è vero che le amministrazioni hanno il dovere di non travolgere la condizione di equilibrio familiare che il lavoratore part-time ha nel frattempo raggiunto, dandogli considerazione, dignità ed importanza analoga a quella riguardante l’organizzazione del lavoro, ricercando prioritariamente soluzioni di adattamento e/o alternative alla revoca del part-time, nel caso di revoche indiscriminate e non motivate dei part-time, ci troviamo di fronte ad un utilizzo del potere autoritativo discretivo che va oltre i limiti consentiti.
In aggiunta a quanto sin qui detto va aggiunto il Tribunale di Pavia G.L. (19.04.2011) esclude il pregiudizio alla funzionalità dell’ufficio in cui è incardinato il lavoratore “ da trasformare” ogni qual volta la durata della prestazione lavorativa dello stesso risulti ridotta. Certamente l’intervento della Corte Costituzionale sarà risolutivo della problematica.
Avv. R. Tigre