Il contratto a termine, in ragione di quanto disposto dalla L. 230/62, era strettamente correlato all’esistenza di cause determinate e previste dalla legge. Cosicché, allorchè è stato emanato il decreto legislativo 368/01 – in recepimento di direttiva comunitaria in materia – le possibilità di utilizzo del contratto di lavoro a termine sono state ampliate e correlate, in modo generico, ad esigenze tecniche, produttive, organizzative e sostitutorie. In realtà, però, sin dai primi anni di emanazione del decreto legislativo 368/01, l’utilizzo “disinvolto” della predetta tipologia contrattuale senza, soprattutto, l’osservanza dei requisiti formali relativi alla formazione del contratto, ha portato ad un notevole contenzioso. Infatti, di frequente, l’individuazione delle esigenze tecniche produttive ed organizzative alla base del contratto non erano indicate, ovvero, lo erano in modo del tutto generico tanto da rendere il contratto stesso nullo per violazione dell’art. 1 del D. Lgs. 368/01. Fino a pochi mesi fa le conseguenze sanzionatorie legate alla nullità del contratto erano decisamente gravi atteso che, oltre alla conversione del contratto da tempo determinato a tempo indeterminato, il datore di lavoro, spesso, era costretto al pagamento di risarcimenti assai onerosi, calibrati in applicazione delle norme civilistiche e, pertanto, pari alle retribuzioni maturate dal recesso fino al ripristino del rapporto di lavoro. Considerato che le cause talvolta durano alcuni anni, ben si intende come i danni da risarcire spesso erano ragguagliate ad alcune decine di mensilità. Recentemente, il collegato lavoro (art. 32 n.5 L. 181/2010) ha notevolmente mitigato il sistema sanzionatorio prevedendo l’erogazione di una indennità risarcitoria variabile tra le 2,5 e le 12 mensilità; ovviamente, la nullità del contratto continua a determinarne la sua conversione da tempo determinato a tempo indeterminato. (Fonte: avv. R.Tigre/CertineWs)