Sono novantamila metri cubi di rifiuti: «spazzatura» molto speciale: scorie prodotte dalla stagione nucleare italiana (quella chiusa con il referendum del 1987) e residui di altre attività, soprattutto medico-radiologiche. Sono tutte radioattive, ma in grado diverso: quelle più delicate, ad alta attività, occupano quindicimila metri cubi ma sono responsabili del 90% della radioattività emessa. Una buona parte è all’estero in Francia e in Gran Bretagna ma anche in Svezia in attesa di fare ritorno in Italia sotto forma di blocchi vetrificati. La notizia è che probabilmente entro dicembre l’Ispra renderà noti i criteri tecnici ai quali il deposito nucleare nazionale dovrà uniformarsi ed in sette mesi, quindi entro il prossimo agosto, la Sogin che si occupa dello smantellamento delle vecchie centrali) dovrà mettere nero su bianco la Carta nazionale delle aree potenzialmente idonee. Dieci anni fa, proprio in questi giorni, i cittadini di Scanzano Jonico scatenavano una rivolta contro la decisione di costruire nel loro comune il famigerato deposito, che prevedeva l’edificazione di una struttura a settecento metri di profondità, in uno strato di salgemma impermeabile. Dieci anni dopo Scanzano, un luogo deputato a ospitare il deposito nazionale (e il parco tecnologico) ancora non esiste. A differenza di allora, però, non si tratterà di scavare il sottosuolo, ma di costruire una struttura di superficie che possa comunque resistere per duecento anni e che dovrà ospitare le scorie a bassa e media attività (in modo permanente), e per qualche decennio quelle ad alta attività, in attesa di trasferirle a un deposito europeo di profondità di cui, peraltro, ad oggi non c’è traccia. Ebbene, se si interpreta alla lettera il documento che i nuovi vertici della Sogin hanno depositato alla Camera qualche giorno fa, siamo già in ritardo.
Secondo quelle stime serviranno almeno quattro anni per arrivare a una localizzazione condivisa del sito e all’«Autorizzazione unica». Si calcola poi un altro quadriennio per la progettazione esecutiva e la costruzione. Ai primi di novembre la Regione Emilia-Romagna ha già approvato una risoluzione presentata dalla Lega che dice «no» all’installazione del deposito a Caorso, il sito della centrale (e del reattore noto come «Arturo») spenta nel 1987. Ma anche se tutto filasse liscio sarà difficile rispettare le scadenza. I programmi prevedono il rientro del materiale radioattivo da Sellafield (Inghilterra) a partire dal 2019, e dalla Francia (La Hague) dal 2020 al 2020. Va precisato che francesi e inglesi si riservano, dopo il riprocessamento di scorie e fanghi, di tenere per sé il plutonio e l’uranio ricavati, e ancora utilizzabili. Lo faranno sicuramente i primi, mentre i secondi ancora devono decidere il da farsi. La contabilità del combustibile è tenuta al grammo dall’Euratom, e una clausola nei contratti vincolerebbe quei materiali ad esclusivo uso civile. Secondo gli accordi in vigore, quindi, niente bombe con scorie italiane.
CertineWs/MGD